C a p i t o l o  I

Ivan Merz nacque a Banja Luka, città della Bosnia nord-occidentale, il 16 dicembre 1896. Questi nomi geografici sono oggi tristemente noti in tutto il mondo, tuttavia la storia, in verità molto complessa, di quella regione in genere non fa parte del bagaglio culturale delle persone colte dell’Occidente europeo. Sarà quindi opportuno dare fin dall’inizio di questo studio un quadro storico generale, politico e religioso – anche se necessariamente sommario -, dell’ambien­te in cui si svolse la vita e l’attività del personaggio di cui ci occupiamo.1

PRIMA  PARTE

        1. La sorte delle terre croate nel secolo XIX e all’inizio del secolo XX.

        La Bosnia e l’Erzegovina – per mandato del Congresso di Berlino del 1878 – furono occupate dalle truppe austro-ungariche, dopo che per oltre quattro secoli erano state sotto il dominio ottomano. Nel 1908 poi, per decisione unilaterale di Vienna, questa regione venne annessa all’Impero absburgico, senza però essere unita alle altre terre croate che facevano parte dell’Impero; fino alla caduta della Monarchia (1918), infatti, la Bosnia rimase un’entità autonoma sotto l’amministra­zione comune austro-ungarica. Così le terre croate della Monarchia absburgica erano divise in tre parti principali: la Croazia – compresa la città di Rijeka (Fiume) come “corpus separatum” – e la Slavonia nonché il Međimurje facevano parte delle terre della Corona di S. Stefano (Ungheria); la Dalmazia e l’Istria si trovavano nella parte austriaca dell’Impero, mentre la Bosnia e l’Erzegovina – come già accennato – costituivano un’unità a sé sotto l’Austria-Ungheria.

        Se questa divisione nel lontano passato era dovuta alle conquiste della maggior parte delle terre croate da parte di Venezia e dei Turchi, nel secolo XIX, quando ormai esse si trovavano entro i confini di una sola potenza, potevano essere riunite, come i Croati ripetutamente chiedevano, ma la politica del “divide et impera” non lo consentiva. Già dopo la caduta di Napoleone, l’imperatore Francesco II, venuto in possesso delle province “illiriche”, invece di unire la parte croata al banato di Croazia-Slavonia, fece della Dalmazia (insieme con Dubrovnik) una provincia dell’Austria; così pure della Krajina2 rifece una regione militare che soltanto nel 1881 venne definitiva­mente unita alla Croazia civile. Anche Francesco Giuseppe I, che nel 1860 aveva dichiarato di assumersi personalmen­te la cura di risolvere questo problema, lasciò le cose come stavano.

        Quando in seguito al riordinamento dualistico della Monarchia absburgica (1867) nacque l’Austria-Ungheria come unione di due stati, i Tedeschi dell’Austria e i Magiari nell’Unghe­ria cercarono di accentuare il loro predominio sui propri Slavi, che – secondo l’espressione del ministro Beust – dovevano essere messi alle strette.3 I Croati della parte ungherese dovettero regolare i loro rapporti con l’Ungheria mediante un accordo particolare, che effettivamente venne stipulato nel 1868. L’Accordo bilaterale (“Nagodba”) tra “il regno d’Ungheria e il regno di Croazia, Slavonia e Dalmazia” riconosceva ai Croati il carattere di “nazione politica con il suo territorio e quanto agli affari interni con la sua legislazione e il governo autonomo”, ma (in parte per colpa degli stessi delegati croati) riuscì molto sfavorevole alla Croazia soprattutto sul piano finanziario. L’accordo si basava sulla Sanzione pragmatica del 1722, secondo la quale le terre della Corona di S. Stefano erano inseparabili, e poiché la Dalmazia nominalmente era una di queste terre, l’Ungheria avrebbe potuto allora rivendicarne l’effettiva unione con la Croazia e Slavonia; ma agli Ungheresi interessava più il porto di Rijeka. Su questo punto però non fu trovato un accordo con i Croati. Tuttavia gli Ungheresi in seguito considerarono e trattarono Rijeka come un “separatum sacrae regni coronae adnexum corpus”. 

        L’assolutismo di Bach (1851-1860) aveva creato tra i Croati un forte sentimento anti-austriaco. D’altra parte, i tentativi degli Ungheresi di magiarizzare la Croazia-Slavonia avevano provocato ripetutamente reazioni anche violente da parte dei Croati. La politica croata era costretta a barcamenarsi tra Vienna e Budapest; soltanto il Partito del diritto, fondato nel 1861 da Ante Starčević4 ed Eugen Kvaternik,5 aveva preso una posizione indipendentista: né con Vienna né con Budapest, ma la Croazia a sé. Di fatto le forze croate erano insufficienti per imporre il rispetto dei propri diritti. Starčević era consapevole che occorreva attendere nuove condizioni internazionali più favorevoli.

        C’è poi da ricordare che a quell’epoca non esisteva il diritto universale di voto, e in un dato momento il re non esitò di imporre al Sabor croato una legge elettorale che ne modificava profondamente la struttura: lo fece nel 1867, disponendo l’aumento dei c.d. “virilisti” (alti prelati e nobili che di diritto facevano parte del Sabor) e diminuendo il numero dei deputati da eleggere, dando inoltre il diritto di voto ai dipendenti statali, più esposti alle pressioni del governo. Solo un Sabor così eletto poteva assicurare un Accordo con i Magiari come quello del 1868, che fu poi fonte di continue difficoltà per il popolo croato, anche perché gli Ungheresi non rispettavano sempre nemmeno quello che avevano stipulato. Ancor peggiore fu la legge elettorale che il bano Khuen-Héderváry (1883-1903) fece votare dal Sabor nel 1888 e con la quale voleva rendere praticamente impossibile ogni opposizione. A causa dell’alto censo richiesto, soltanto circa il 2 % dei cittadini aveva il diritto di voto; lo avevano invece tutti gli impiegati, compresi quelli degli uffici comuni ungaro-croati, anche se erano Magiari; fu inoltre diminuito il numero dei deputati, compresi i virilisti, ma soprattutto furono riviste le circoscrizioni elettorali in modo che due o anche tre distretti, dove l’opposione aveva la maggioranza, venivano uniti in uno (quindi con un solo deputato), mentre ai distretti confinanti con quelli in cui la maggioranza era serba venivano uniti tanti elettori serbi da garantirvi l’elezione di deputati serbi (i Serbi votavano sempre per il governo). In tal modo si ebbe l’anomalia che in 44 circoscrizioni su 80 erano decisivi i voti dei Serbi6, quindi questi nel Sabor (per la Croazia-Slavonia!) avevano più deputati di quanti a loro spettassero in proporzione al numero della popolazione serba, che era circa un terzo del totale.  

        2. La questione dei Serbi in Croazia. 

        La presenza delle popolazioni ortodosse nelle terre croate era la conseguenza della plurisecolare dominazione turca in quelle regioni. Di varia origine etnica, quelle popolazioni, provenienti dai Balcani, si erano stabilite, oltreché nella Bosnia ed Erzegovina (dove dai Turchi erano favorite rispetto ai cattolici), anche nelle regioni limitrofe della Croazia-Slavonia e della Dalmazia. Sotto l’influenza della propaganda della Serbia e soprattutto della Chiesa ortodossa serba, queste popolazioni nella seconda metà del secolo XIX acquistarono progressivamente la coscienza nazionale serba. Il Sabor croato nel 1861 per la prima volta riconosce che nel regno della Croazia-Slavonia-Dalmazia vive (in parte) anche il popolo serbo. In seguito i Serbi cominciano a condizionare sempre più la politica nella Croazia, diventando strumento di Vienna o di Budapest contro gli interessi dei Croati. Così, in Dalmazia, li troviamo dalla parte degli “autonomisti” contrari all’unificazione con la Croazia-Slavonia, mentre a Zagreb sono favoriti dal bano Khuen-Héderváry a danno dei Croati. Non a caso, durante il ventennio di Khuen-Héderváry, dei 103 deputati serbi nel Sabor croato ben 101 erano “magiaroni” ossia del partito che appoggiava il governo.7 Non perché fossero particolarmente affezionati ai Magiari, ma perché sistematicamente negavano ai Croati il diritto ad uno Stato proprio, insistendo che la Croazia poteva essere solo una terra serbo-croata. In questo contesto, un numero sproporzionato di Serbi occupava i posti direttivi negli uffici pubblici, mentre i partiti croati facevano l’opposizione.

        3. La nascita dell’ideologia “jugoslava”.

        L’ideologia “jugoslava”,8 nella storiografia viene legata al nome di Josip Juraj Strossmayer, vescovo di Djakovo.9 Lo “jugoslavismo” di Strossmayer era, in realtà, la continuazione dell'”illirismo” croato (Risorgimento nazionale) degli anni Trenta e Quaranta del secolo XIX che, partendo dall’idea dell’identità linguistica ed etnica degli Slavi del Sud, aveva contribuito al nascere dell’idea di una comunità politica e, in definitiva, dell’unità nazionale di quei popoli.

        Per un insieme di circostanze, fin dai primi anni del suo episcopato Strossmayer dovette intervenire nel campo politico mettendo in guardia contro le tendenze centraliste austriache e ungheresi e proponendo un ordinamento federalista della Monarchia. Strossma­yer, sebbene non formalmente, era la guida spirituale del Partito Nazionale (“Narodna stranka”) che aveva la maggioranza nel Sabor eletto nel 1861 e nel 1865. Dopo l’introduzione del dualismo e l’Accordo ungaro-croato (1868), deluso si ritirò dalla politica attiva, ma non smise di difendere il diritto del popolo croato all’unificazione delle sue terre e alla sua indipenden­za statale, nell’ambito della Monarchia absburgica.

        Ci fu però un tempo in cui Strossmayer aveva veduto nell’unità statale degli Slavi del Sud la soluzione del problema nazionale croato, era stato quindi per uno Stato “jugoslavo” indipendente da Austria e Ungheria (1866); e mentre la Serbia pensava come impossessarsi della Bosnia ed Erzegovina, Strossmayer si mostrò favorevole a questo piano, pensando – ingenuamente – che in tal caso la Serbia avrebbe cessato di essere uno Stato esclusivamente serbo e sarebbe diventata uno Stato “slavo” (1868). Nel 1874 Strossmayer ancora immaginava come obiettivo finale l’unione dei Croati, Serbi, Bulgari e Sloveni “in una loro comunità statale, indipendente e libera”, sostenendo la necessità di istillare nel popolo l’idea dell’unità nazionale jugoslava.

        E’ da sottolineare che, nelle intenzioni di Strossmayer, l’avvicinamento culturale degli Slavi del Sud e la loro eventuale unione avrebbe dovuto favorire l’avvicinamento delle Chiese orientali, in particolare della Chiesa ortodossa serba, a Roma. Un sogno – non raro nelle menti croate, come si vedrà più avanti – che non preoccupò mai gli uomini ecclesiastici e politici serbi.

        Col tempo – resosi conto del vero obiettivo della politica serba, che era quello di una Grande Serbia comprendente anche tutte le terre croate – Strossmayer ritornò all’idea del riordinamen­to della Monarchia absburgica su basi federaliste (lettera del 2 dic. 1885 al nunzio a Vienna Serafino Vannutelli). E all’amico canonico Franjo Rački scriveva: «Il nostro popolo si trova in una posizione pericolosa. I Serbi sono i nostri nemici mortali (in orig.: krvni neprijatelji). Ha detto bene, penso, il Marković, che, mentre noi combattiamo contro i Magiari, il fratello Serbo ci attacca alle spalle… Anche i giornali esteri scrivono di questo, cioè che i Serbi si sono uniti ai Magiari, solo per distruggerci (in orig.: da nas utuku)» (19 aprile 1884).10

        4. Per una Croazia unita e autonoma.

        Critico nei riguardi delle idee politiche di Strossmayer e di quanti sognavano l’unione di tutti gli Slavi del Sud era Ante Starčević. Edotto dalla storia, egli non sperava che la Croazia potesse ottenere il pieno rispetto dei suoi diritti né da Vienna né dall’Ungheria, ma nemmeno vedeva la soluzione dei suoi problemi in una qualche unione degli Slavi del Sud. Perciò nel Sabor del 1861 si pronunciava per l’indipendenza della Croazia: «L’Austria sa che il sovrano, che senza colpa del popolo, lo tradisce o lo fa prigioniero, cessa di essere sovrano e diventa tiranno sanguinario. Io non capisco che cosa vogliano dire coloro che affermano che il regno di Croazia… non può esistere da sé, indipendente». E poi: «Non so che cosa siano queste vostre Slavie, che cosa (siano) gli Slavi (Slavjani), ma so che questi Slavi non hanno fatto nulla di buono per i Croati…».11

        Dopo l’insurrezione anti-austriaca (1871), in cui Kvaternik perse la vita, Starčević – che non vi aveva preso parte – finì in prigione e il suo Partito del diritto (“Stranka prava”) cessò di esistere, per riapparire sotto il regime di Khuen-Héderváry, contro il quale condusse una opposizione radicale. Nel periodo in cui maturava la coscienza nazionale in senso moderno, Starčević ebbe un grande ruolo e merito per il risveglio della coscienza nazionale croata.

        Egli (la cui madre era ortodossa) e Kvaternik non riconoscevano agli ortodossi della Croazia la nazionalità serba, ritenendoli politicamente Croati di religione ortodossa (come, del resto, in Serbia i cattolici erano considerati politicamente Serbi). Kvaternik aveva addirittura fatto presente al bano Šokčević (3 dic. 1861) la necessità di istituire il patriarcato della Chiesa ortodossa croata. E tra i primi aderenti al Partito del diritto erano in maggioranza gli ortodossi, che si consideravano Croati. Ma negli anni Ottanta, gli ortodossi croati, sotto l’influsso della propaganda dei loro preti, avevano già maturato la coscienza nazionale serba. Il Partito di Starčević assumerà col tempo una posizione diversa nei riguardi dei Serbi. Infatti, dopo la scissione del Partito nel 1895, soltanto il ramo guidato da Josip Frank (Partito “puro” del diritto) manterrà nei riguardi dei Serbi la posizione iniziale del Partito.

        Nel 1894 i partiti dell’Opposizione croata di allora – il Partito del diritto e il Partito Nazionale Indipendente12 – concordarono un programma comune che aveva per scopo la realizzazione di uno Stato croato nell’ambito della Monarchia absburgica. Al num. 1 del programma si legge: «L’Opposizione croata unita, in base al diritto statale e al principio di nazionalità, si adopererà con tutti i mezzi legittimi, affinché il popolo croato che abita in Croazia, Slavonia e Dalmazia, in Rijeka e nel suo distretto, nel Međimurje, nella Bosnia, Erzegovina ed Istria, si unisca in un corpo statale autonomo, nell’ambito della Monarchia absburgica, e appoggerà con tutte le forze le premure dei fratelli Sloveni, affinché anche le terre slovene entrino a far parte di questo corpo statale».13 Questo programma sarà condiviso dalla maggior parte dei politici croati prima del 1918, solo che avrà sempre meno sostenitori la clausola “nell’ambito della Monarchia absburgica”.

        Nel frattempo, in Croazia continuava il regime di Khuen-Héderváry, con i tentativi di magiarizzare il paese: mediante le scuole ungheresi, l’obbligo dell’ungherese nelle ferrovie, il tentativo di introdurlo anche nelle poste; le città e i paesi ricevevano i nomi ungheresi, i giornali venivano fortemente censurati, multati e sequestrati. Il popolo, impoverito, emigrava in massa in America, mentre le terre croate venivano colonizzate dai Magiari. Per mostrare simbolicamente che la Croazia era parte dell’Ungheria, il primo ministro Bánffy fece portare dall’Ungheria due vagoni di ghiaia da spargere alla stazione ferroviaria di Zagreb, affinché l’imperatore Francesco Giuseppe, nell’uscire dal treno – in occasione della sua visita alla città per l’inaugurazione del nuovo teatro (14 ottobre 1895) – mettesse piede sul “suolo magiaro”. Fu in quell’occasione che un gruppo di studenti universitari bruciò la bandiera ungherese davanti al monumento del bano Josip Jelačić (che nel 1848 aveva combattuto gli insorti ungheresi). I responsabili di questo gesto furono radiati dall’università di Zagreb, dovettero quindi continuare gli studi fuori della patria, per lo più a Praga, ciò che avrebbe avuto conseguenze impreviste per la vita pubblica croata nelle prime decadi del secolo XX.

        In quella stessa occasione, la bandiera serba era stata issata sugli edifici serbi e sulla chiesa ortodossa di Zagreb, il che pure provocò delle reazioni, limitate alla rottura di vetri sui rispettivi edifici. Ben più gravi saranno le dimostrazioni anti-serbe a Zagreb l’1 e 2 settembre 1902, dopo la pubblicazione sul giornale “Srbobran” dell’articolo Srbi i Hrvati (Serbi e Croati), in cui si negava la lingua propria e la nazionalità croata e si preannunciava la lotta “fino allo sterminio vostro o nostro”.14 Che nel cuore della Croazia venisse pubblicato un tale articolo, la dice lunga sulla prepotenza dei Serbi. “Srbobran” era l’organo del Partito Serbo Indipendente (“Srpska samostalna stranka”) che era al servizio del regime di Khuen-Héderváry, era contrario all’unione della Dalmazia alla Croazia e circa la Bosnia ed Erzegovina era sulla posizione della Serbia; quindi era contrario al programma dell’Opposi­zione croata del 1894.

        Per completare il quadro, bisogna ancora segnalare il Partito Nazionale, cioè i c.d. Magiaroni, ossia il partito del governo, filoungherese.

        In Dalmazia, la quale apparteneva alla metà austriaca dell’impero, fino agli anni Ottanta del secolo XIX c’erano due partiti in lotta: quello degli “autonomisti” (nelle città), contrario all’unione con la Croazia, e il Partito Nazionale (“Narodna stranka”) che al tempo del bano Jelačić aveva chiesto l’unificazione con la Croazia; questo partito soltanto nel 1870 ottenne la maggioranza dei seggi nel Parlamento dalmata. Verso la fine del secolo si afferma il Partito del diritto che nel 1905 si fonderà con il Partito Nazionale, formando il Partito Croato. Negli anni Ottanta entra in scena anche il Partito Serbo.

        5. Il “nuovo corso” della politica croata all’inizio del secolo XX.

        Nei primi anni del secolo XX il quadro politico croato cambia notevolmente. A ciò concorsero vari fattori esterni ed interni, con il risultato che, invece di cercare la soluzione del problema nazionale croato guardando all’Occidente, si cominciò a vederla guardando all’Oriente.

        Anzitutto c’era stato un peggioramento della situazione politica nella parte austriaca della Monarchia, dopo l’ostruzionismo tedesco nel Consiglio imperiale (Reichsrat) contro il tentativo del ministro conte Badeni di rendere ufficiale nella Boemia, con il tedesco, anche la lingua ceca. Se i Cechi nella loro terra, dove per secoli avevano avuto il proprio Stato e dove erano la maggioranza rispetto ai Tedeschi, non potevano ottenere l’equiparazione della propria lingua con il tedesco, «allora nemmeno noi Croati… potevamo illuderci riguardo al nostro futuro. E io mi sono allora definitivamente convinto – scriveva più tardi il politico croato Ante Trumbić15 – che era vana la speranza che nell’ambito dell’Impero absburgico ci fosse un nostro futuro. Questa (mia) persuasione soggettiva, fondata sull’osservazione personale degli avvenimenti nel parlamento austriaco, si propagava tra gli intellettuali croati e nei circoli politici sotto l’influsso di quei fenomeni evidenti. Si vedeva che l’Austria con la sua dinastia era l’ostacolo principale ad una onesta comprensione tra i popoli. Nella politica croata maturava la convinzione che bisognava distaccarsi dall’Austria, che non era una nazione ma una dominazione, e come Stato era soltanto il piedestallo ad una dinastia non attuale».16

        Abbiamo citato questo testo perché esso ci offre la chiave per la comprensione del successivo orientamento di Trumbić che tanta parte ebbe nella politica “jugoslava”. Egli infatti fu il promotore del “nuovo corso” della politica croata in Dalmazia, che perseguiva l’unione di vari fattori politici che fino allora erano stati antagonisti: Croati, Serbi e Italiani, e cercava di trovare un’intesa con i Magiari in quanto oppositori di Vienna.

        Nel frattempo, la situazione in Croazia era ulteriormente peggiorata e, in seguito alle dimostrazioni del 1903 contro il governo di Khuen-Héderváry, la permanenza di questi a Zagreb era diventata impossibile. Il re – che in Khuen aveva grande fiducia – lo mandò (27 giugno 1903) come primo ministro in Ungheria, sperando che ivi riuscisse a “pacificare” i Magiari che avevano cominciato a chiedere la scissione di tutti i legami con l’Austria, salvo la dinastia (unione personale).

        Durante la tensione tra il parlamento ungherese e la corte di Vienna (che durò oltre tre anni) alcuni deputati dell’opposi­zione unita della Croazia e dei partiti croati della Dalmazia – tra cui lo stesso Trumbić – decisero di appoggiare gli Ungheresi nelle loro rivendicazioni, sperando che ciò sarebbe stato vantaggioso anche per i Croati. Dichiararono questo loro intento nella cosiddetta Risoluzione di Fiume (“Riječkja rezolucija”) del 3 ottobre 1905. Gli iniziatori di questa Risoluzione riuscirono ad ottenere anche l’appoggio dei Serbi della Dalmazia e della Croazia, i quali però – nella c.d. Risoluzione di Zara (“Zadarska odluka”) del 17 ottobre 1905 – si dichiararono disposti ad appoggiare la richiesta dei Croati per l’unificazione della Dalmazia alla Croazia-Slavonia «se … da parte dei Croati sarà riconosciuta l’uguaglianza del popolo serbo con quello croato». Anche il Club dei deputati italiani nel Parlamento dalmata aveva preso un atteggiamento analogo, a condizione che agli Italiani venissero riconosciuti i diritti di minoranza nazionale. La Coalizione ungherese, come anche i giornali ungheresi, avevano accolto con grande soddisfazione la Risoluzione di Fiume, che doveva costituire la base delle trattative in vista dei nuovi rapporti tra la Croazia e l’Ungheria. Una delegazione ungherese, presieduta da Ferencz Kossuth (1841-1914), capo dell’opposi­zione, era attesa a Rijeka per il 19 febbario 1906, ma Francesco Giuseppe fece convocare il parlamento ungherese per quello stesso giorno e lo fece sciogliere, dopo che l’esercito ne aveva occupato la sede. Il 7 aprile 1906, Ale­xander Wekerle, uomo di Francesco Giuseppe, riuscì a formare il governo ungherese insieme con l’opposizio­ne; ciò significava la capitolazio­ne dell’opposi­zio­ne, ma anche la vanificazione delle speranze croate, tanto più che lo stesso F. Kossuth, con cui Ante Trumbić aveva trattato dell’appoggio croato all’opposizio­ne ungherese, aveva accettato di far parte del governo Wekerle. Kossuth riconobbe con Trumbić che non c’era altra via di uscita: o il governo di coalizione con Weckerle, o l’assolutismo con la dittatura! Improvvisa­mente venne sciolto anche il Sabor croato e fu stabilito che le elezioni si tenessero dopo otto giorni.

        Da allora, specialmente tra i più giovani, diventava sempre più forte la convinzione che “nell’ambito della Monarchia” i Croati non potevano aspettarsi la realizzazione dei loro legittimi interessi nazionali.17

        6. I “progressisti” e la “solidarietà slava” (“slavenska uzajamnost”).

        La politica del “nuovo corso” ebbe il sostegno della giovane generazione imbevuta di idee progressiste, la quale sul piano culturale aveva rotto con i valori del passato, compreso il cattolicesimo, e sul piano politico si entusiasmava per la “solidarietà slava” (“slavenska uzajamnost”), guardando sempre più verso l’Oriente. I suoi esponenti erano quegli studenti che nel 1895 si erano recati a Praga e che, sotto l’influenza di Tomaš Masaryk, si erano lasciati conquistare dalle idee dei “realisti” cechi e, tornati in patria, si erano fatti portatori del liberalismo antireligioso, ritenendo la religione responsabile degli attriti tra i Croati e i Serbi. Si fa così strada l’idea dell’unità nazionale di Serbi e Croati. E se da principio qualcuno – come il deputato Josip Smodlaka di Split18 – pensava che la Croazia nell’ambito degli Slavi del Sud avrebbe avuto diritti uguali alla Serbia e alla Bulgaria, ben presto tale questione non fu più attuale per la gioventù progressista che aveva cominciato a chiamarsi “nazionali­sta”, sottintendendo con questo un nebuloso “jugoslavi­smo”.

        Nell’aprile del 1904 apparve a Zagreb il settimanale “Pokret” (Il Movimento), organo dei progressisti, che non risparmiava critiche a tutto ciò che essi ritenevano “retrogrado”, e per loro retrogrado era tutto ciò che era legato alla Chiesa cattolica, al clero e alla stessa religione, anche se a parole essi non intendevano toccare i principi religiosi; essi però riducevano la religione ad un affare privato di ogni individuo. L’impegno degli uomini della Chiesa nel campo della cultura e della politica veniva da essi bollato come “clericali­smo”, ossia il tentativo della Chiesa di conquistare mediante la religione il potere politico per diventare padrona assoluta della situazione. Il termine “clericalismo”, per i progressisti era sinonimo di cattolicesimo. Bisognava quindi sostituire la Chiesa romana con una “chiesa nazionale”, sull’esempio di quella ortodossa. Sul piano politico, come già detto, erano infatuati dello “slavismo”, della “solidarietà slava”. Verso la fine del 1904, il gruppo progressista di Zagreb fondò il Partito Progressista (Napredna stranka).

        Portatore di queste idee in Dalmazia era il nuovo Partito Democratico (Demokratska stranka) di Josip Smodlaka, radicalmente “anticlericale”, in realtà anticattolico, e filoserbo. Smodlaka, che in passato faceva parte del Partito del diritto, aveva fatto, nel frattempo, un altro passo avanti verso lo “jugoslavismo integrale”: ormai non si trattava più di riconoscere ai Serbi in Croazia la qualifica di nazione politica, poiché Serbi e Croati erano considerati un solo popolo.

        Ai Serbi questa politica non dispiaceva, infatti portava acqua al loro mulino. Chi invece li conosceva più da vicino, si rendeva conto delle conseguenze negative che potevano venire da una tale politica. Tra i primi a preoccuparsene fu l’arcivescovo di Sarajevo Josip Stadler19 e i suoi collaboratori. Del resto, il giornale serbo di Sarajevo “Srpska riječ” (La parola serba) (1905) appoggiava l’unione della Dalmazia alla Croazia, a condizione che i Croati voltassero le spalle a Roma e a Vienna e rinunciassero alla Bosnia-Erzegovina, nella quale non riconosceva l’esistenza della nazionalità croata. Al tempo stesso si mostrava disposto a collaborare con i Croati “progressisti”, ma non con “quelli di Stadler”.

        Nel dicembre 1904 veniva fondato il Partito popolare contadino croato (Hrvatska pučka seljačka stranka) dei fratelli Anton20 e Stjepan Radić21 i quali dedicheranno particolare attenzione ai problemi del mondo rurale che costituiva la maggioranza del popolo croato. Anche il programma di questo partito non era privo di idee progressiste, esso tuttavia non ignorava i valori cristiani, anche se il cristianesimo di Stjepan Radić era “a modo suo” e l’anticlericali­smo era ben presente nella sua lotta politica. Sul piano politico condivideva il programma dell’Opposizione croata del 1894 e, pur sostenendo la necessità della “solidarietà slava”, non era a favore della liquidazione della Monarchia absburgica, bensì per il suo riordinamen­to su basi federaliste.

        L’unico partito che non si era evoluto nel segno della “solidarietà slava” ed era rimasto sulle posizioni originali del partito di Starčević era il Partito “puro” del diritto. Il suo capo era l’avvocato Josip Frank (1844-1911), di origine ebraica ma battezzato cattolico. Politicamente era orientato verso l’Austria, sperando che prima o poi nella Monarchia sarebbe stato instaurato il trialismo; nel qual caso tutte le terre croate, compresa la Bosnia, si sarebbero trovate nella posizione in cui si trovava l’Ungheria rispetto all’Austria. Che a Vienna ci fossero uomini che la pensavano così, non c’è dubbio; quanto poi lo stesso principe ereditario Francesco Ferdinando fosse realmente propenso a questa soluzione (come allora si credeva), è difficile dirlo. L’arcivescovo di Sarajevo Stadler condivideva sostanzialmente l’impostazio­ne politica di Frank. Frank era senz’altro un uomo molto capace, inoltre egli aveva sacrificato grandi somme per il partito, per cui lo considerava come sua proprietà e si comportava di conseguenza, ciò che urtava alcuni deputati, in primo luogo Mile Starčević e Ante Pavelić. Nel 1906 si arrivò quasi alla rottura, ma per il momento essa fu evitata. Avverrà alcuni anni più tardi, verso la fine di marzo 1908, e allora quelli del gruppo dissidente di Mile Starčević saranno chiamati “Milinovci”, mentre i fedeli di Frank si chiameranno “Frankovci”. Secondo le Memorie di Kršnjavi, che svolse il ruolo di mediatore nel 1906, “probabilmente” la spaccatura nel partito derivava dai Cristiano-sociali che puntavano su Mile Starčević, che era un nome autorevole (in quanto nipote di Ante Starčević), mentre – aggiungeva Kršnjavi – Frank doveva tener presente di essere un ebreo battezzato, figlio di un immigrato. «La sua vanità è fonte di tutti i suoi errori. Egli come spirito supera tutti i membri del suo partito e lo fa vedere. Di ciò sono da tempo stanchi Mile Starčević e il dr. Pavelić»22

        7. La Coalizione croato-serba.

        Alle elezioni per il Sabor croato, indette dopo la costituzione in Ungheria del governo Weckerle e fissate per il 3-5 maggio 1906, il partito dei “Magiaroni” perse definitivamente, mentre la maggioranza relativa dei seggi fu ottenuta dalla Coalizione croato-serba, che era costituita dai partiti che avevano accolto la Risoluzione di Rijeka, e precisamente: il Partito croato del diritto, il Partito croato progressista, il Partito nazionale serbo indipendente, il Partito nazionale radicale serbo e il Partito socialdemocra­ti­co. Una coalizione di partiti eterogenei nella quale accanto al gruppo dominante dei progressisti con orientamento “jugoslavo” e anticlericale c’era il Partito del diritto in cui erano attivi anche i sacerdoti cattolici. In un secondo tempo alla Coalizione si unì anche il Club indipendente, costituito da alcune personalità che non facevano parte di nessun partito. Dal settembre 1910, la Coalizione sarà formata da due soli partiti: il Partito croato unito indipendente (risultato dalla fusione del Partito croato del diritto col Partito croato progressista) e dal Partito serbo indipendente.23 Fuori della Coalizione restarono, oltre al Partito nazionale (Magiaro­ni), il Partito “puro” del diritto (di Frank) e il Partito popolare contadino di Radić.

        Finché il croato Fran Supilo24 era lo spiritus movens della Coalizione, questa combatteva per gli interessi della Croazia, per l’autonomia finanziaria ed aveva nel programma l’unione della Dalmazia alla Croazia-Slavonia. Fin dai primi giorni della Coalizione, però, ci fu una lotta subdola contro Supilo, per opera del serbo Svetozar Pribičević, il quale alla fine riuscì ad avere il sopravvento. Dopo l’uscita di Supilo dalla Coalizione, Pribičević ne divenne il personaggio più influente e la Coalizione, pur di essere con il governo, si trasformò in un partito opportunista che assecondava servilmente le volontà di Budapest.

        Alle elezioni del 27/28 febbraio 1908 la Coalizione conquistò la maggioranza dei seggi (56) perché era riuscita a guadagnare l’opinione pubblica presentandosi quale difensore della libertà della Croazia.25 Intanto il nuovo bano Pavao Rauch, per ordine dall’alto, inaugurava la sua politica antiserba.26 Durante il suo governo si celebrò a Zagreb il processo per alto tradimento contro 53 Serbi, finito con decine di condanne,27 e a Vienna il processo contro lo storico austriaco Friedjung colpevoli di aver accusato, nella “Neue Freie Presse”, i membri della Coalizione di essere legati a Belgrado, da dove avrebbero ricevuto anche denaro. In modo particolare era preso di mira Fran Supilo, ma il processo risultò uno smacco per l’Austria.28  Rauch il 5 febbaio 1910 dava le dimissioni e al suo posto veniva nominato Nikola Tomašić. Egli ebbe l’appoggio della Coalizione, che aveva accettato senza riserva il dualismo e l’Accordo ungaro-croato del 1868. Il politico sloveno Janez Krek definì allora questo passo della Coalizione come un errore imperdonabile, un vero tradimento della Croazia.29 Quando però Tomašić per due volte (nelle elezioni del 28.X.1910 e in quelle del 15-18.XI­I.1911) cercò di ottenere la maggioranza per il suo Partito del progresso nazionale, non ci riuscì. Il 19 gennaio 1912 furono accettate le sue dimissioni, ma poiché neanche il nuovo bano Slavko Cuvaj aveva la maggioranza nel Sabor, quest’ultimo venne sciolto e Cuvaj nominato “regio commissario”. Di nuove elezioni non si parlava. Fu introdotta la censura preventiva dei giornali, il divieto di associazione e di raduni. Francesco Giuseppe ancora una volta riservava ai Croati l’assolutismo, ma così anche perdeva ogni autorità.

        La Coalizione continuò la sua politica di opportunismo verso il governo ungherese.30

        8. La situazione politica nella Bosnia-Erzegovina.

        A questo punto occorre dare uno sguardo alla situazione della Bosnia ed Erzegovina prima e dopo l’occupazione militare austro-ungarica.

        La Bosnia era stata sotto il dominio dei Turchi dal 1463 e l’Erzegovina dal 1482. Prima dell’arrivo dei Turchi in quella regione, i cattolici costituivano l’85 % della popolazione. Dopo quattro secoli, al momento dell’occupa­zione austro-ungarica, più precisamente nel 1879, soltanto il 18,08 % erano cattolici, mentre gli ortodossi erano 42,88 % e i musulmani 38,75 %. C’erano anche 3.675 Ebrei, che per la prima volta vengono menzionati a Sarajevo nel 1541, a seguito dell’espulsione dalla Spagna.

        Questo profondo cambiamento del quadro demografico era dovuto, in parte al passaggio di una parte della popolazione alla religione dei conquistatori, in parte alle grandi emigrazioni dei cattolici esposti alle persecuzio­ni, specialmente dopo la guerra di Vienna (1683-1697). L’aumento della popolazione ortodossa, invece, era dovuto principalmente all’immigrazione di elementi ortodossi provenienti dai Balcani, con i quali i Turchi ripopolavano le zone lasciate spopolate dai profughi cattolici; i Turchi agivano sia per ragioni economiche (per disporre di manodopera per lavorare la terra), sia per ragioni militari (per avere dei soldati al confine occidentale della Bosnia). A differenza dei cattolici che erano considerati sudditi del Papa, gli ortodossi per lungo tempo hanno goduto una certa fiducia dei Turchi, che spesso sfruttavano contro i cattolici. Il provinciale francescano Filip Laštrić-Oćevac nel 1766 scriveva degli ortodossi: «…hos infestiores hostes toleramus, quam Turcas ipsos. Numquam enim nobis non insidiantur, quo nos suae jurisdictioni subjiciant…».31 I vescovi ortodossi, infatti, cercavano di sottomettere alla propria giurisdizione i cattolici, soprattutto per ragioni puramente economiche, cioè per avere maggiori entrate. Non di rado essi esigevano le tasse anche dai cattolici. Infine molti cattolici, specialmen­te nell’Erzegovi­na orientale (diocesi di Trebinje), rimasti senza propri preti, ricorrevano, in caso di bisogno, a quelli ortodossi, e così sensim sine senu diventavano ortodossi.32

        Tuttavia, le secolari sofferenze comuni alle popolazioni cristiane e la presenza del nemico comune avevano avvicinato i cattolici e gli ortodossi, così che la prima metà del secolo XIX rappresentò un periodo di relativa calma nella Bosnia ed Erzegovina.

        Nella seconda metà del secolo XIX, però, si ebbe un rapido risveglio nazionale delle popolazioni ortodosse che, per l’identità di religione con quelle della Serbia, avevano cominciato a chiamarsi “serbe”: l’espressione “serbo” e “ortodosso” divennero sinonimi. Vuk Karadžić, partendo non dall’identità della confessione religiosa ma dalla lingua parlata, aveva sostenuto addirittura che anche i cattolici e i musulmani erano “serbi”.33 Un passo più concreto, nello stesso spirito, fu fatto dallo statista serbo Ilija Garašanin (1812-1874), il quale nel suo “Načertanije” (1844) formulò il programma politico della Grande Serbia nella quale dovevano essere riuniti tutti i Serbi. Erano così poste le basi del moderno imperialismo serbo.

        Il vescovo Strossmayer – come abbiamo già detto – era favorevole al piano della Serbia per l’annessione della Bosnia. Ante Starčević però, basandosi sul diritto storico statale croato si batteva per uno Stato croato indipendente comprendente tutte le terre storiche croate, quindi anche la Bosnia e l’Erzegovina. Sotto l’influsso di questa corrente politico-nazionale, per opera del clero e delle scuole, anche tra i cattolici della Bosnia ed Erzegovina si risvegliava la coscienza nazionale croata, soprattutto nell’Erzegovina, dove anche le masse contadine si sentivano croate. E come il termine “serbo” era diventato sinonimo di “ortodosso”, così, per lo più per ragioni di difesa contro le pretese serbe, il termine “croato” diventò sinonimo di “cattolico”, sebbene i cattolici avessero la coscienza di appartenere ad una religione sopra-nazionale.

        Sotto la dominazione turca la situazione era diventata insopportabile per la gente costretta a subire ogni genere di soprusi, per cui avvenivano periodiche insurrezioni. Il governo turco non era in grado di attuare le riforme promesse. L’inglese Gladstone pubblicamente chiedeva la cacciata dei Turchi dall’Europa e l’autonomia della Bosnia ed Erzegovina, ma a questa autonomia era contraria l’Austria, che già dal 1856 aveva rivolto l’attenzione a questo paese desiderando con esso compensare la perdita del Lombardo-Veneto. Finalmente, dopo la sconfitta turca ad opera della Russia, il ministro austro-ungarico Gyula Andrassy (1825-1890) riuscì a promuovere la convocazione del Congresso europeo a Berlino che, su proposta della delegazione inglese, diede all’Austria (4 luglio 1878) il mandato di occupare ed amministrare la Bosnia ed Erzegovina. Nello stesso mese le truppe croate, sotto il comando del generale Josip Filipović, entrarono nella Bosnia.

        Questa occupazione austro-ungarica impedì la realizzazione del piano serbo, ma la Serbia non cessò di aspirare alla Bosnia che considerava terra serba. Così pure per i Croati la Bosnia era una delle terre storiche croate, perciò rimasero delusi quando né Vienna né Budapest vollero unirla alla Croazia. Ante Starčević, a sua volta, a proposito dell’occu­pa­zione affermò che «l’occupazione della Bosnia ed Erzegovina, senza (il rispetto del) diritto che solo il regno di Croazia ha su quelle terre, non può avere altra fine che quella di mandare in rovina in breve tempo quelle terre e di affrettare le richieste esterne contro la Monar­chia».34

        In un primo tempo il governo della Bosnia ed Erzegovina fu affidato al Ministero comune degli esteri, presso il quale poi fu istituita una Commissione bosniaca (Bosnische Komission). E quando il presidente di questa Commissione Joszef Szlavy fu nominato ministro delle finanze, la Commissione e l’amministrazione della B.-E. passarono alla competenza di quel Ministero. Il 4 giugno 1882, al posto di Szlavy fu nominato Benjamin Kallay (1839-1903), il quale, pur vivendo per lo più a Vienna, per vent’anni sarà il padrone della Bosnia ed Erzegovina.

        La politica austro-ungarica in quella regione fu tutt’altro che filo-croata, anzi il governo non permetteva l’uso del nome “croato”, mentre nel 1886 permise l’uso del nome “serbo”. E quando, nel gennaio 1887, il vescovo di Mostar Paškal Buconjić protestò presso il capo del governo Appel contro l’arresto di alcuni giovani che avevano portato sul petto una bandierina croata, Appel gli rispose che il nome serbo era permesso perché era considerato “religioso-confessionale­”, mentre il nome “croato” era solo nazionale. In realtà, poiché il governo rappresentava una potenza “cattolica”, per evitare le proteste e accuse di parzialità cercava di accontentare gli ortodossi e i musulmani piuttosto che i cattolici. E poiché in occasione di ogni conversione (di fatto rara) al cattolicesimo si levavano proteste dall’altra parte interessata, il governo pretese addirittura di regolare il passaggio da una religione, non rispettando la libertà individuale e le norme canoniche, il che provocò le reazioni della gerarchia cattolica.35 La politica di Kallay non cambiò i sentimenti e l’orientamento dei Serbi, che continuavano ad aspirare all’unione della Bosnia ed Erzegovina con la Serbia. La “politica nazionale bosniaca” di Kallay non ebbe successo nemmeno tra i Croati; soltanto un gruppo di musulmani intorno al periodico “Bošnjak” (Il Bosniaco) (1891-1910) l’aveva accettata, ma senza successo duraturo. Tanto i Serbi come i Croati cercavano di attirare i musulmani dalla propria parte, e infatti alcuni si erano dichiarati Serbi ed altri Croati, ma la maggioranza rimase indecisa.

        Dopo le disastrosa situazione finanziari dell’impero ottomano che aveva ridotto la Bosnia in grande povertà, l’occupazione austro-ungarica nei primi anni aveva portato grandi capitali; così si poterono aprire nuovi posti di lavoro (nelle ferrovie, nelle foreste ecc.). Gli impiegati erano meglio pagati dei loro compagni oltre la Sava. Tutto ciò contribuì ad un relativo benessere. Dai paesi dell’Austria-Ungheria venivano in Bosnia parecchi immigrati, piccoli impiegati, operai; i posti direttivi erano per lo più occupati da Tedeschi e Magiari, ma questi avevano pure particolare riguardo verso i feudali musulmani che venivano nominati sindaci delle città.

        Usciti dalla schiavitù turca, sia i cattolici che gli ortodossi potevano respirare più liberamente e riorganizzarsi. Per quanto riguarda i cattolici, fu istituita la normale gerarchia ecclesiastica: Sarajevo divenne sede dell’arcivescovo-metropolita, mentre sedi suffraganee furono istituite a Mostar e a Banja Luka.

        Nel 1908 la Bosnia ed Erzegovina furono formalmente annesse all’Austria-Ungheria. La Serbia protestò contro l’annessione, ma le potenze dell’Intesa (Inghilterra, Francia e Russia) fecero sapere che nel caso di guerra non avrebbero aiutato la Serbia. Così per allora la guerra fu evitata. Nel 1910 la Bosnia ebbe una Costituzione propria e il parlamento regionale. Ancora una volta, i Croati che avevano sperato che la regione sarebbe stata unita alla Croazia, rimasero delusi.36

        Secondo il censimento del 1910, in Bosnia-Erzegovina su 1.898.044 abitanti i cattolici erano 434.061 (22,87 %), gli ortodossi 825.918 (43,49 %), i musulmani 612.137 (32,25 %), altri 26.428 (1,39 %).37


  1. Per la redazione di questa sintesi storica mi sono servito delle seguenti opere (oltre a quelle citate nelle successive note): Znameniti i zaslužni Hrvati te pomena vrijedna lica u hrvatskoj povijesti od 925-1925 (Croati celebri e meritevoli nonché i personaggi degni di essere ricordati nella storia croata dal 925 al 1925), Zagreb 1925; Josip Horvat, Politička povijest Hrvatske (Storia politica della Croazia), Zagreb 1936; Lovre Katić, Pregled povijesti Hrvata (Compendio della storia dei Croati), Zagreb 1938; Jere Jareb, Pola stoljeća hrvatske politike (Mezzo secolo della politica croata), Buenos Aires 1960; Jure Krišto, Prešućena povijest. Katolička Crkva u hrvatskoj politici 1850-1918 (La storia sottaciuta. La Chiesa cattolica nella politica croata 1850-1918), Zagreb 1994.
    ↩︎
  2. Territorio croato di confine militarmente organizzato in funzione del contenimento dell’avanzata turca dalla Bosnia.
    ↩︎
  3. Friedrich Beust (1809-1896), ministro austro-ungarico degli affari esteri dal 1866 al 1871. Cf. Iso Kršnjavi, Zapisci. Iza kulisa hrvatske politike (Memorie. Dietro le quinte della politica croata), Zagreb 1986, p. 715. Kršnjavi (1845-1927) racconta come (nel 1876) il vescovo Strossmayer gli aveva parlato dell’incontro avuto con il ministro Beust prima che fosse concluso l’Accordo austro-ungarico del 1867: il vescovo aveva avvertito il ministro delle conseguenze disastrose di un accordo con la sola Ungheria, ma invano. Sconfitte così le correnti federaliste di allora, il dualismo introdotto nella Monarchia significò in realtà l’inizio della fine della medesima, perché la crescente prepotenza sia dei Tedeschi nell’Austria che dei Magiari nell’Ungheria doveva necessariamente favorire le aspirazioni indipendentiste dei popoli slavi.
    ↩︎
  4. Ante Starčević (1823-1896), uomo politico croato, nato a Žitnik presso Gospić, da padre cattolico e madre ortodossa. Studiò filosofia e teologia a Budapest, ma non ricevette gli ordini sacri. Laureato in filosofia, fu impiegato nello studio legale dell’avvocato Ladislav Šram a Zagreb. Nel 1861 fu eletto gran cancelliere della contea (županija, prefettura) di Rijeka, ma l’anno successivo finì sotto inchiesta a causa di un atto da lui redatto e approvato all’unanimità dal Consiglio della contea; ebbe anche un mese di carcere e perdette il posto. Tornò quindi nello studio legale di Šram. Nel 1871 fu arrestato perché sospetto di aver avuto relazione con la insurrezione di Rakovica, ma fu poi scagionato. Fu redattore del giornale “Sloboda” (Libertà) – dal 1878 al 1883 a Sušak, poi a Zagreb. Dal 1861 fino alla morte fu eletto otto volte deputato al Sabor (parlamento) croato. Cf. Znameniti i zaslužni Hrvati..., cit., p.245; Enciclopedia Cattolica (Città del Vaticano) XI, 1206.
    ↩︎
  5. Eugen Kvaternik (1825-1871), nacque a Zagreb, studiò diritto a Budapest, fu avvocato a Brod na Kupi. Insofferente dell’assolutismo di Bach e privato dell’esercizio dell’avvocatura, nel 1857 si recò in Russia, sperando ingenuamente di trovare aiuto per la Croazia. Deluso, andò a Torino, poi a Parigi (1859), nella speranza di ottenere che Napoleone III aiutasse l’unificazione delle terre croate. Cessato l’assolutismo di Bach, tornò a Zagreb e fu eletto deputato per il Sabor del 1861. A Causa di un opuscolo politico fu condannato a 6 settimane di carcere e fu avvertito che sarebbe stato espulso dalla Croazia per aver preso (nel 1858) la cittadinanza russa. Si recò di nuovo a Parigi, dove visse come collaboratore di diversi giornali. (Kvaternik conosceva otto lingue!). Nel 1865 ritornò a Zagreb, ma il giorno di Natale fu esiliato in Italia. Essendo nel frattempo cambiata la situazione politica, nel luglio 1867 tornò in patria e nel 1879 ebbe la cittadinanza di Zagreb. Nel 1870 aprì lo studio legale, e nell’autunno del 1871 promosse a Rakovica e nei dintorni l’insurrezione armata, durante la quale fu colpito a morte (11 ott.). Cf. Znameniti i zaslužni Hrvati…, cit., p. 156. ↩︎
  6. I. Kršnjavi, op. cit., p. 586. Vedi anche p. 618, dove chiama “orribile” la legge elettorale di Khuen-Hedervary.
    ↩︎
  7. Cf. Lovre Katić, Pregled povijesti Hrvata, Zagreb 1938, p. 258.
    ↩︎
  8.  Di questo argomento tratta ex professo Ivan Mužić, Hrvatska politika i jugoslavenska ideja (La politica croata e l’idea jugoslava), Split 1969.
    ↩︎
  9. Josip Juraj Strossmayer (Osijek, 4.II.1815 – Đakovo, 8.IV.1905), vescovo di Đakovo dal 1849 fino alla morte. Figura di spicco nella politica e nella cultura croata. Cf. Enciclopedia cattolica XI, 1420s.
    ↩︎
  10. Ibid., p. 28.
    ↩︎
  11. Ibid., p. 35.
    ↩︎
  12. Il Partito Nazionale Indipendente (“Neodvisna Narodna Stranka”)  sorse nel 1880 in seguito all’uscita dal Partito Nazionale di un gruppo di deputati, malcontenti della politica del bano Ladislav Pejačević. Era di solito chiamato il Partito di Strossmayer o “Obzoraši”, secondo il quotidiano “Obzor”. Cf. Jere Jareb, Pola stoljeća hrvatske politike cit., p. 14.
    ↩︎
  13. Ibid., p. 17.
    ↩︎
  14. L’articolo era dovuto a Nikola Stojanović ed era stato precedentemente pubblicato nel “Srpski književni glasnik”.
    ↩︎
  15. Ante Trumbić (Split, 17.V.1864 – Zagreb, 17.XI.1938) studiò diritto a Zagreb, Vienna e Graz, dove si laureò. Fu deputato nel Parlamento dalmata e dal 1895 anche nel Consiglio imperiale di Vienna. Fu autore del testo della Risoluzione di Fiume (1905). Durante la Prima guerra mondiale, come presidente del Comitato Jugoslavo a Londra, svolse un’intensa attività diplomatica per la creazione di uno stato jugoslavo. Come ministro degli esteri del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni partecipò alla Conferenza di pace a Parigi e trattò con l’Italia sulla questione adriatica (Trattato di Rapallo del 12 nov. 1920).
    ↩︎
  16. Ante Trumbić, Iz mojih političkih uspomena. Suton Austro-Ugarske i Riječka rezolucija (Dai miei ricordi politici. Il tramonto dell’Austria-Ungheria e la Risoluzione di Fiume), in Izabrani spisi (Scritti scelti), Split 1986, p. 155.
    ↩︎
  17. A. Trumbić, op. cit., pp. 156-219, tratta ampiamente della Risoluzione di Fiume e delle trattative con i Magiari.
    ↩︎
  18. Cf. J. Krišto, op. cit., p. 208.
    ↩︎
  19. Josip Stadler nacque a Brod na Savi il 24 genn. 1843. Studiò filosofia e teologia a Roma (alla Gregoriana) come alunno del Collegio Germanico-Ungarico. Fu professore di teologia fondamentale e di dogmatica a Zagreb. Eletto primo arcivescovo-metropolita dell’arcidiocesi di Vrhbosna (Sarajevo), fu consacrato il 20 nov. 1881. Aprì il seminario minore a Travnik e quello Maggiore a Sarajevo, affidandoli ai gesuiti. Costruì la cattedrale di Sarajevo ed altri edifici ecclesiastici. Fondò la Congregazione delle Suore Ancelle del Bambino Gesù per la cura delle pensone abbandonate (anziane e bambini). Per le sue opere fu chiamato “taumaturgo” dal vescovo Strossmayer. Autore e traduttore di libri filosofici, teologici e storici, fondò anche alcuni periodici. Era un uomo di Dio e apostolo dell’Eucaristia. Morì l’8 dicembre 1918.
    ↩︎
  20.  Anton Radić (1868-1919), nato a Trebarjevo presso Sisak, studiò filosofia (lettere) a Zagreb e a Vienna. Insegnò in diverse città. Fu redattore dello Zbornik za narodni život i običaje južnih Slavena (Miscellanea sulla vita popolare e costumi degli Slavi del sud) pubblicato dall’Accademia Jugoslava di Zagreb. Nel 1900 cominciò a pubblicare il periodico “Dom” (Casa, Focolare) per il mondo contadino. Nel 1904 divenne attivo nella politica, fondando – con il fratello Stjepan -il Partito popolare contadino. Fu uno scrittore fecondo.
    ↩︎
  21. Stjepan Radić (1871-1928) fu uno di quegli studenti che nel 1895 bruciarono la bandiera ungherese a Zagreb e dovette recarsi a Praga. Studiò poi scienze politiche a Parigi. Negli anni 1903-1905 fu redattore del periodico “Hrvatska misao” (Pensiero croato), ispirato alla solidarietà slava. Scrisse moltissimo. Il suo partito, da principio poco influente, diventò dopo il 1919 il più forte partito croato. Ferito nel Parlamento di Belgrado il 20 giugno 1928, morì l’8 agosto successivo.
    ↩︎
  22. Iso Kršnjavi, Zapisci (Memorie) cit., p. 473.
    ↩︎
  23. Cf. Jere Jareb, op. cit., pp. 14-15.
    ↩︎
  24. Fran Supilo (Cavtat, 30.XI.1870 – London, 25.IX.1917) fu redattore del giornale di Dubrovnik “Crvena Hrvatska” (“Croazia rossa”. Questo era il nome con cui, secondo certi documenti medievali, veniva chiamata la regione tra il fiume Cetina e la città di Valona nell’odierna Albania: Croatia rubea o Dalmatia superior) e poi fondatore e redattore di “Novi list” (Il giornale nuovo) di Rijeka. Ebbe parte attiva nelle trattative con i Magiari che portarono alla Risoluzione di Fiume (1905). Era amico di V. Stead, corrispondente del “Times” da Vienna, e di Seaton Watson, noto sotto il nome di Scotus Viator. Nel processo di Friedjung uscì vincitore. Uscito dalla Coalizione croato-serba, continuò a combattere per gli interessi del popolo croato. All’inizio della Prima guerra mondiale si trovò in Svizzera. Fece parte del Comitato Jugoslavo di Londra.
    ↩︎
  25. Quando si parla dell’opinione pubblica non bisogna dimenticare che a quell’epoca, a causa della legge elettorale (v. sopra), soltanto 43.381 cittadini (su 2.622.000) avevano il diritto di voto. Di conseguenza, il Sabor rappresentava poco o affatto le larghe masse del popolo che, in realtà, fin dall’inizio vedevano con sospetto la Coalizione, attribuendole troppa credulità verso i Magiari e i Serbi.
    ↩︎
  26. Kršnjavi nelle sue Memorie, al 9.3.1908 annota: “Egli (il bano) mi ha rivelato che è stata data la parola d’ordine: La più aspra lotta contro i Serbi” (p. 516).
    ↩︎
  27. I condannati poi furono amnistiati. Dopo la guerra, alcuni di loro dichiareranno che era vero quello per cui erano stati condannati.
    ↩︎
  28. Fu dimostrata la falsità dei “documenti” esibiti da Friedjung e che egli aveva avuto dal ministro Aerenthal e dall’ambasciatore austriaco a Belgrado. Friedjung lo riconobbe, dichiarando di aver agito in buona fede. L’altra parte si accontentò di questa dichiarazione e ritirò l’accusa..
    ↩︎
  29. Petar Rogulja, nel suo Diario al 14 febbraio 1910 (a Ljubljana) ha scritto: “Krek pensa che la Coalizione ha fatto un errore imperdonabile per aver, in quel modo, proprio tradito la Croazia. Doveva perseverare, e Khuen sarebbe stato più remissivo”. Cf. Petar Grgec, Dr. Rudolf Eckert, Zagreb 1995, p. 111. – Grgec annota che il cedimento della Coalizione era uno scandalo per tutti (ibid.). In Croazia non mancavano quelli che nella politica della Coalizione vedevano il più grande nemico della nazionalità croata. E benché il nucleo della Coalizione fosse costituito dal Partito croato del diritto, il cui programma del 1894 mirava alla creazione di uno Stato croato, di fatto questo partito con la sua inattività e povertà di idee ha permesso che nella Coalizione dominasse il serbo Svetozar Pribičević. Non era difficile prevedere che una tale politica avrebbe fatto prevalere l’idea statale serba. E il pensiero che la Croazia potesse finire sotto la Serbia riempiva giustamente di paura molti Croati. La politica di tutti i partiti serbi, infatti, aveva per obiettivo la Grande Serbia, e se venivano presi in considerazione anche i Croati, ad essi veniva assegnato il ruolo di una appendice serba. Nella Coalizione croato-serba il gruppo più intraprendente era quello progressista, che era anche il più ostile alla Chiesa catolica. Più che fondato era quindi il timore che questa minoranza antireligiosa fanatica si unisse con i partiti gran-serbi e cominciasse ad opprimere i Croati e cattolici. (Cf. ibid., pp. 106-107, 185). Lo stesso Fran Supilo, che nel suo “Novi list” aveva appoggiato i progressisti, più tardi li tacciava di “snobismo”, di “immitazione di qualcosa che pensano sia nuovo, mentre la loro principale caratteristica è quella di non saper pensare” (Josip Horvat, Hrvatsko pitanje u žarištu evropske politike, in Jubilarna knjiga “Obzor”, Zagreb 1935, p. 46, cit. da Deželić, III, p. 203).
    ↩︎
  30. Il culmine del servilismo verso Budapest la Coalizione lo raggiunse nel 1914, quando i Magiari nel parlamento comune presentarono la legge secondo cui essi avevano il diritto di espropriare anche forzatamente il litorale croato, perché ciò sarebbe di compettenza del Ministero del commercio ungherese. Fran Supilo organizzò allora a Sušak un comizio di protesta, ma la Coalizione lo proibì. Certo Supilo non risparmiò la Coalizione attaccandola per tale vigliaccheria a danno del proprio popolo. Secondo i bene informati, la Coalizione avrebbe dato il consenso all’esproprio del litorale per due ragioni: primo, perché erano i Serbi, con Pribičević, a guidare la Coalizione, ed essi non volevano compromettere la propria posizione privilegiata nel governo a causa di una questione che riguardava il territorio croato; secondo, perché pensavano che ciò avrebbe ulteriormente esasperato i Croati contro lo Stato attuale e li avrebbe spinto a cercare la soluzione del problema nazionale fuori dei confini della Monarchia. Cf. L. Katić, op. cit., p. 269.
    ↩︎
  31. D. Farlatus, Illyricum Sacrum, vol. IV, Venezia 1769, p. 87. Cf. Tomo Vukšić, Međusobni odnosi katolika i pravoslavaca u Bosni i Hercegovini (1878.-1903.) (I rapporti tra i cattolici e gli ortodossi nella Bosnia ed Erzegovina dal 1878 al 1903), Mostar 1994, pp. 47-51.
    ↩︎
  32. Cf. K. S. Draganović, Massenübertritte von Katholiken zur Orthodoxie im kroatischen Sprachgebiet zur Zeit der Türkenherrschaft, Roma 1937; Dominik Mandić, Etnička povijest Bosne i Hercegovine (Storia etnica della Bosnia ed Erzegovina), Roma 1967, pp. 456-494.
    ↩︎
  33. Vuk Stefanović Karadžić (1787-1864), autodidatta, dopo la disfatta della Serbia di Karađorđe (1813) emigrato a Vienna, per suggerimento di J. Kopitar aveva cominciato a raccogliere e pubblicare la poesia popolare serba e croata. Traduttore della S. Scrittura in lingua serba, autore dello “Srpski rječnik” (Dizionario serbo), raccoglitore del materiale riguardante la vita, i costumi e le credenze del popolo, introdusse la lingua parlata nella letteratura serba, adattando l’alfabeto cirillico. Nel suo articolo Srbi svi i svuda (Serbi tutti e ovunque) – nell’almanacco “Kovčežić” 1849 – sostenne che tutti quelli che parlavano il dialetto “štokavo” (quindi anche la maggioranza dei Croati) erano Serbi.
    ↩︎
  34. Citato da L. Katić, op. cit., p.252.
    ↩︎
  35. Di questo argomento tratta ampiamente T. Vukšić, op. cit., pp. 126-212.
    ↩︎
  36. Del resto, non tutti nella più forte formazione politica in Croazia, ossia nella Coalizione croato-serba, erano per l’unione della B.-E. alla Croazia: la componente serba della Coalizione, infatti, era sulle posizione della Serbia, quindi la politica della Coalizione nel suo complesso non era affatto di aiuto ai Croati della Bosnia-Erzegovina. Pertanto si comprende che l’arcivescovo di Sarajevo Josip Stadler, che cercava di promuovere gli interessi dei cattolici, trovasse più coerente condividere la politica del Partito “puro” del Diritto di Josip Frank.
    ↩︎
  37. Cf. T. Vukšić, op. cit., p. 67.
    ↩︎